La Lombardia è uno dei territori maggiormente colpiti in questi giorni dalla diffusione del Covid 19. Ci pare importante condividere l’editoriale di Lorenzo Rinaldi, direttore de Il Cittadino di Lodi e quello di Sabrina Penteriani, direttrice di Sant’Alessandro.org di Bergamo, come segno della vicinanza della Federazione a tutti i giornalisti e collaboratori delle nostre testate impegnati anche in questi momenti così difficili ad essere “informazione di prossimità” alle proprie Chiese.
Da quando, nella notte fra giovedì 20 e venerdì 21 febbraio, è stata resa pubblica la notizia di un primo contagiato a Codogno, la vita nel nostro territorio ha subito uno scossone. Tutto è cambiato e si è passati dalla fase dell’iniziale smarrimento a quella della preoccupazione. I primi provvedimenti adottati da Regione e Governo hanno avuto un impatto significativo sulle persone: la definizione della zona rossa dalla quale non si può entrare o uscire senza autorizzazione, la decisione di Roma di inviare l’esercito, il blocco delle attività produttive e scolastiche in dieci comuni. Anche quanti vivono al di fuori della zona rossa hanno toccato con mano il senso di precarietà derivante da limitazioni e divieti: anche in questo caso chiusura delle scuole, chiusura dei bar dopo le 18 (per fortuna poi revocata), blocco delle attività culturali e sportive, finanche l’impossibilità di partecipare alla Messa. In una parola, la vita quotidiana di migliaia di persone stravolta. Il Lodigiano, 230mila persone conosciute per essere miti e laboriose, si è ritrovato al centro del mondo.
Ci sarà tempo e modo per ragionare sull’effettiva utilità di misure draconiane e sugli effetti presso l’opinione pubblica e sull’economia delle modalità con le quali è stata gestita la comunicazione istituzionale. Non è però questo il momento. Questi primi dieci giorni di emergenza, in realtà, ci hanno consegnato l’immagine di un territorio di cui andare orgogliosi.
Abbiamo visto all’opera medici e infermieri che, senza lamentarsi, si sono sobbarcati un impegno massacrante in strutture ospedaliere prese d’assalto. A Codogno c’è chi ha fatto tre turni senza staccare. C’è la storia di un medico che sarebbe dovuto andare in pensione e ha scelto di restare in prima linea. C’è la storia di un altro medico, il primario del pronto soccorso di Lodi, che è apprezzato a tal punto che i suoi colleghi hanno chiamato in redazione per invitarci a parlare di lui. Ci sono le storie di tanti eroi invisibili (come li ha chiamati una nostra lettrice): medici ospedalieri, infermieri, medici di famiglia, in prima linea, al fronte, senza dire una parola.
L’emergenza ci ha raccontato poi le storie dei tanti, tantissimi volontari che stanno dando l’anima. Mercoledì uno storico milite della Croce bianca di Sant’Angelo mi confidava che non sapeva quanto avrebbero potuto reggere i suoi uomini: «È tutta gente che la notte sale in ambulanza e si fa centinaia di chilometri e il giorno dopo deve presentarsi al lavoro, e va avanti così da giorni». E sul «Cittadino» di venerdì abbiamo raccontato dei volontari della Croce rossa di Lodi e della Casalese. E ancora. Come non parlare dei sindaci lodigiani, di quelli della zona rossa, che si sono trovati a fronteggiare una situazione più grande di loro. Si dice che nei nostri paesi i primi cittadini sono il parafulmine per ogni problema. Con l’emergenza coronavirus è stato proprio così: in poche ore, solo per fare due esempi, si sono trovati a dover dare ascolto agli imprenditori preoccupati e agli anziani soli che hanno necessità di assistenza, di un pasto caldo, di una parola di confronto. E hanno dovuto riorganizzare i loro Comuni e talvolta fare la voce grossa per non essere trattati come appestati.
E poi c’è la centrale operativa della prefettura, allestita in fretta e furia nel centro di Lodi, che sta lavorando h24 da venerdì e dove i pochi funzionari in forza a una città di 45mila abitanti stanno rispondendo a migliaia di domande, richieste di informazioni, di deroghe per attività economiche, finanche per il trasporto delle salme. Ci sono giovani servitori dello Stato che stanno dormendo tre ore a notte e che si muovono costantemente con due telefoni cellulari. E basta vederli lavorare – come è capitato in questi giorni a chi scrive – per capire che sono il futuro della nostra Italia.
Infine ci sono i cittadini, i lodigiani, che hanno reagito a quanto successo in maniera eccezionale. Preoccupati e disorientati, ma anche composti nelle reazioni, misurati secondo lo stile e la cifra di un territorio che non si è mai caratterizzato per gli eccessi e le reazioni violente. Il Lodigiano è stato un esempio per il resto del Paese.
Da direttore mi sia concesso un ultimo grazie, pubblico, ai miei giornalisti che dal 20 febbraio non hanno staccato un momento. A quelli che hanno lavorato da Lodi e a quelli che sono rinchiusi nella zona rossa e aggiornano l’Italia su quanto sta avvenendo. Ne vado fiero.
Sono passati dieci giorni dal primo caso di contagio. Troppo pochi per avere certezze, anche se la voglia di tornare alla normalità, di riaprire scuole e fabbriche si tocca con mano nei nostri centri e la gente sta iniziando a riappropriarsi dei suoi spazi. Il nostro territorio è ancora in mezzo al guado, ma ne usciremo, tutti insieme. Forza e coraggio Lodigiano!
Lorenzo Rinaldi direttore Il Cittadino (Lodi)
Coronavirus: cambiamo punto di vista. Le nostre armi migliori sono l’amore, la cura, essere una comunità
“Adesso più che mai bisogna innamorarsi – scrive il poeta e paesologo Franco Arminio, che in questi giorni di inquietudini per il coronavirus regala sulla sua pagina Facebook avvincenti decaloghi contro la paura -. Dobbiamo riprendere il vigore che hanno gli alberi che stanno per fiorire. Non possiamo nasconderci, seppellirci nella distanza, la paura viene a prenderci ovunque siamo, la paura è già tutta scesa nelle nostre ossa, dobbiamo denunciare il nostro spavento, dobbiamo scuoterci e scuotere. La vera arma contro il coronavirus è l’amore, il furore di una nuova passione per la sacralità della terra e della vita. Dobbiamo cantare e narrare, leggere poesie, pregare, baciare, dobbiamo inventare qualcosa che ci tiene insieme veramente, dobbiamo dire che la dittatura dell’economia ha ridotto il volume delle nostre anime. Alla fine più che una battaglia medica è una battaglia teologica: non siamo qui per difenderci dalla morte, ma per onorare il dono misterioso di ogni vita”.
Queste parole mettono i brividi, come i versi de “Il bacio” di Neruda: “Vorrei fare con te ciò che la primavera fa con i ciliegi”. I rami degli alberi in questi giorni si stanno riempiendo di fiori, ma noi siamo avvolti in una nebbia collettiva.
Pensiamo soprattutto a ciò che l’epidemia ci toglie: la libertà, l’economia, la salute, la scuola, perfino la messa, la catechesi e l’oratorio. I contatti con gli amici e con le persone care, più fragili, gli anziani che bisogna proteggere. Ci mancano le strette di mano e gli abbracci, le partite allo stadio, gli spettacoli, il cinema, le feste. Sono tutti problemi reali, pesantissimi, e fatichiamo in questo momento a vedere le soluzioni. Ci sentiamo, soprattutto, in balia delle decisioni di altri, e di una tempesta crudele che il destino ci ha riversato addosso. Vorremmo tanto che qualcuno si prendesse la colpa.
“L’arma contro il coronavirus è l’amore”: non è una frase fatta, ma un invito a cambiare punto di vista, partendo da noi stessi, da ciò che possiamo fare, e dalla fede. Ogni sacrificio che facciamo è anche questo, un atto di fede, un gesto d’amore, di cura e di responsabilità per le persone che ci sono vicine e per la società nel suo complesso. “Nessun uomo è un’isola – scrive John Donne – intero in se stesso. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità”.
E’ la natura stessa, con la primavera incombente, a offrirci la strada per reagire: è il momento di essere creativi, escogitare contromisure. Credere nella possibilità di riuscirci.
Usare la rete per tutte le possibilità positive e costruttive che offre (la didattica online, la cultura in streaming, messe e preghiere in diretta, la possibilità di videochiamarsi e scambiarsi messaggi, scambiarsi informazioni affidabili, rispondere alle emergenze, creare reti che possano funzionare anche offline).
E poi “inventare qualcosa che ci tenga insieme veramente” perché il virus può molto contro i singoli, ma è inefficace verso una comunità coesa. Riscoprire le radici, i legami, tradurli in gesti concreti che ci aiutino a rendere la vita più facile, anche nella difficoltà, prendendosi cura gli uni degli altri: con prudenza e buon senso, senza risparmiarsi, come già fanno gli operatori sanitari e i volontari che li affiancano, come già accade spontaneamente, nelle zone più colpite, dove le forze più sane si sono messe in moto. Fra le immagini più forti, quelle che ci sono rimaste più impresse, arrivate da Wuhan negli ultimi mesi ci sono quelle delle persone che nei periodi peggiori di isolamento si gridavano saluti e incitamenti a resistere dalle finestre. Adesso tocca a noi trovare un modo, non solo ai politici, a tutti. “Ci siamo sparpagliati – scrive ancora Arminio -, ci siamo spappolati in questi anni. Ora dobbiamo lavorare a costruire comunità. Il virus può uccidere individui, non ucciderà mai una comunità. Solo federando le nostre ferite ci salveremo”. La speranza è già lì, pronta a sbocciare, come i fiori sui rami degli alberi. Dobbiamo “solo” spazzare via la nebbia.
Sabrina Penteriani direttrice di Sant’Alessandro.org (Bergamo)